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“La vida es el Común”. Appunti sul nuovo assetto dell’autonomia zapatista

Ilaria Depari e Maurilio Pirone

In tutti questi anni, da quel 1° gennaio del 1994 quando gli ultimi della terra chiapaneca si ribellarono contro la servitù nei grandi latifondi e la retorica neoliberale del libero mercato, gli/le zapatist* non hanno mai smesso di insegnarci una cosa: l’autonomia è un processo più che uno status, una costante ricerca di pratiche e strumenti collettivi piuttosto che un modello astratto di società.

Durante l’incontro internazionale Resistencia y Rebeldia che si è tenuto in Chiapas presso il CIDECI di San Cristóbal de Las Casas dal 27 al 30 dicembre 2024, la Comandancia dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale ha presentato per la prima volta pubblicamente la nuova struttura organizzativa delle comunità: il Comune zapatista. Si tratta di un lavoro politico tutt’altro che estemporaneo: è il frutto di un percorso interno portato avanti negli ultimi anni sottotraccia ma costantemente, almeno a partire dalla Gira por la Vida realizzata in Europa nel 2021.

Dagli interventi del Subcomandante Moisés e del Capitano Marcos, si evince chiaramente il fatto che il Comune zapatista è stato elaborato come risposta a una serie di problemi, tanto locali quanto globali, esperiti in questi anni.

Prima di tutto la tempesta, metafora di quella che in maniera più fredda viene spesso definita da storici come Adam Tooze la policrisi, ovvero la sovrapposizione e interazione di molteplici crisi: quella climatica, quella migratoria, quella produttiva, quella democratica. Si tratta di un concetto su cui l’EZLN insiste ormai da una decina di anni, come testimoniano gli scritti pubblicati nel 2016 nel volume Il pensiero critico di fronte all'idra capitalista. Quella della tempesta, hanno ribadito, è una temporalità lunga e incerta, che durerà generazioni.

In questa fase, il capitalismo dispiega il suo carattere intrinsecamente necropolitico, laddove “paura e disperazione producono immobilità” sembra non esserci spazio per alternative. Non a caso, durante una delle rappresentazioni teatrali messe in scena dagli/lle zapatist* durante le celebrazioni del 31° anno dal Levantamiento, si tratteggia un futuro prossimo in cui il capitalismo non viene sconfitto (da un partito, da una ribellione) ma implode a causa di un disastro climatico-nucleare. Da lì, parte la difficile costruzione di un mondo a venire in cui solo chi ha praticato il Comune è riuscito a superare la tempesta.

Copertina del primo numero di Teiko

Octavio Passos ©Getty Images

Questa tempesta globale si declina in Messico in molteplici forme che, negli anni, hanno messo a dura prova anche il sistema delle Giunte di buon governo su cui si basavano le comunità zapatiste. I programmi sviluppisti del governo di Andrés Manuel Lopez Obrador, su tutti Sembrando vida, stanno mettendo a rischio la proprietà delle terre redistribuite, provocando l‘impoverimento e la migrazione della popolazione chiapaneca. A questi programmi va aggiunto il radicamento dei cartelli al confine con il Guatemala, la cui violenza ha provocato già l’espulsione di diverse comunità locali. Di fronte a queste sfide, le istituzioni autonome delle Giunte, è stato ammesso, si sono rivelate inefficienti e dispendiose.

Il Comune zapatista è dunque un’innovazione organizzativa situata in problemi specifici del contesto chiapaneco che, però, tratteggia alcune strategie più generali d'uscita dalla tempesta.

Prima di tutto, il comune è stato presentato come pratica più che un’ideologia: “la vita è il comune”, la socializzazione della riproduzione sociale è il punto di partenza per la costruzione di una crepa nella presunta ineluttabilità della tempesta.

Questa pratica prende le mosse primariamente dal superamento parziale della proprietà privata a partire dalla gestione e lavorazione collettiva delle terre – un'inversione rispetto alla lavorazione privata di proprietà comuni come è stato finora.

A questo, il Comune zapatista punta ad affiancare un miglioramento dei servizi offerti dalle e alle comunità, soprattutto quelli legati alla salute. Potremmo ribattezzarla: un’autonomia della cura.

Inevitabilmente, questo processo di riorganizzazione produttiva e sociale è legato anche a una nuova struttura politica, quella dei GAL (Governi Autonomi Locali) che intendono ribaltare la struttura piramidale delle Giunte di buon governo a partire da un maggior protagonismo delle assemblee locali.

Infine, per la prima volta, gli zapatisti hanno aperto la pratica del comune, soprattutto per quanto riguarda l’uso della terra e i lavori collettivi, anche a chi non è zapatista, segno tanto delle difficoltà interne riscontrate in questi anni a causa delle migrazioni verso le grandi città turistiche della costa come Cancún, che della non-esclusività del progetto politico zapatista.

In questo senso, il Comune zapatista è una critica del progressismo occidentale e delle politiche sviluppiste di sinistra, oltre che una ricerca di pratiche collettive per rompere l'individualismo liberista. Il capitano Marcos, in questo caso, ha preso di mira le filosofie dell’automazione, utili a suo dire ad adattarsi allo sfruttamento nella speranza di una redistribuzione parziale delle risorse, piuttosto che a costruire una liberazione dai processi di alienazione e accumulazione.

Ma il comune è anche un invito, rivolto soprattutto alle tante realtà europee incontrate durante la Gira, a non rimanere inchiodate al negativo – alle difficoltà di attivazione politica, all’avanzare delle destre, all’affermarsi di un regime di guerra su scala globale – ma a partire dal qui e ora, da quello che già si riesce e si può fare – il costituente diremmo noi. Detto diversamente, il comune ci stimola ad agire nello spazio del possibile: “l'utopia è un'arma caricata di futuro”, ha ben sintetizzato Ivan di Pallasos en Rebeldía, uno degli ospiti esterni all’incontro del CIDECI.

La costruzione del comune parte da un posizionamento ai margini del necrocene, da chi può vedere oltre la “normalità” del presente: migranti, soggettività non-binarie, popolazioni indigene. In questo senso, il Comune zapatista attinge alle tradizioni maya precapitalistiche e precoloniali come angolatura a partire dalla quale pensare il fuori, riscoprendo – o meglio, costruendo – una propria genealogia alternativa. Ma, come è noto, non esiste una sola genealogia, ed ogni geografia deve costruire le proprie rotte di liberazione.

Il comune come pratica di socializzazione della riproduzione sociale, nella visione zapatista, implica anche il superamento delle differenze politiche, religiose o di razza, genere, cittadinanza a partire da obiettivi condivisi. Detto diversamente, nella costruzione del Comune non contano le identity politics ma le pratiche trasformative e il desiderio costituente.

Non c’è dunque una formula universale: il Comune zapatista è una soluzione situata, elaborata e funzionale per i popoli contadini del Chiapas; in altre geografie e in altre strutture sociali non è detto che funzioni. Ognun* deve sperimentare le proprie soluzioni, costruire le proprie istituzioni autonome della cura, le proprie forme di governo locale. Ma il Comune zapatista sta là a dimostrarci che è possibile. Un invito a tutt* noi, a non cedere alla nostalgia del passato o all’inerzia del presente, ad affrontare la tempesta creando crepe collettive, a mettere al centro la vita come processo olistico, intersoggettivo, trans-specie.

Copertina del primo numero di Teiko

© Ilaria Depari